domenica 9 giugno 2013

I DIKTAT EUROPEI PER GIUSTIFICARE IL FALSO MITO DELLA "COESIONE" La democrazia. Storia di un'ideologia....


I DIKTAT EUROPEI PER GIUSTIFICARE IL FALSO MITO  DELLA "COESIONE"
La democrazia. Storia di un'ideologia....


 


 

Siamo spettatori di un paradosso. Il paradosso è che, al termine di un ventennio consacrato, con regolari vampate salmodianti, al culto del «bipolarismo», i medesimi idolatri siano ora passati, con analoga foga, al culto della «coesione». Il nuovo dogma è: fare «tutti insieme» le «cose che contano», le fondamentali sulle quali è «ovvio» che «siamo tutti d’accordo». Buono a sapersi. Evidentemente il bipolarismo serviva a non farle, le «cose che contano».
La religione del bipolarismo può comunque vantare alcuni bei successi: non solo ha distrutto la cosiddetta «Prima Repubblica» ma ha ridotto la sinistra alla caricatura di se stessa, ad una macchietta speculare della destra, protesa a «contendere il centro alla destra» con le stesse «armi» lessicali e concettuali dell’antagonista.
Inglobata nella pulsione bipolaristica, la sinistra è diventata infatti, via via, sempre meno sinistra.
Dovendo fare insieme le «cose che contano» — cioè far deglutire ai gruppi sociali più deboli una cura da cavallo a botte di tassazione indiretta — centrodestra e centrosinistra archiviano il bipolarismo.
La religione del bipolarismo può comunque vantare alcuni bei successi: non solo ha distrutto la cosiddetta «Prima Repubblica» ma ha ridotto la sinistra alla caricatura di se stessa, ad una macchietta speculare della destra, protesa a «contendere il centro alla destra» con le stesse «armi» lessicali e concettuali dell’antagonista.
Inglobata nella pulsione bipolaristica, la sinistra è diventata infatti, via via, sempre meno sinistra.
Dovendo fare insieme le «cose che contano» — cioè far deglutire ai gruppi sociali più deboli una cura da cavallo a botte di tassazione indiretta — centrodestra e centrosinistra archiviano il bipolarismo.

E lo archiviano per un periodo lunghissimo visto che la cura da cavallo è programmata per il prossimo ventennio se vuole risultare «efficace». (E non sarebbe male cercare di chiarire cosa s’intenda per «efficacia»).
Il processo è stato abbastanza lineare:
1) si abroga il principio proporzionale e si innesca il maggioritario (più o meno totale) in omaggio alla religione idolatrica del bipolarismo;
2) bipolarismo significa necessariamente penalizzazione delle ali dette pomposamente «estreme» e convergenza al centro dei due «poli »;
3) il perseguimento di tale «conquista » ha come effetto la crescente rassomiglianza tra i due poli, i quali infatti rinunciano ben presto a chiamarsi destra e sinistra, e adottano una formula (centrodestra versus centrosinistra) che almeno per il 50 percento ribadisce la coincidenza, se non identità, dei due cosiddetti «poli»;
4) quando questo processo è finalmente compiuto, si constata che la «via d’uscita» dal grave momento nazionale e mondiale è la «coesione»;
5) a quel punto l’idolatrato bipolarismo non solo boccheggia ma viene senz’altro archiviato, e l’operazione appare agevole (o almeno fattibile) perché la marcia dei poli verso il centro ha dato finalmente i suoi frutti, e infatti — come ci viene ripetuto — sulle «cose fondamentali» si deve andar tutti d’accordo!;
6) a questo punto i teorici del «superamento » della distinzione destra/ sinistra in quanto concetti obsoleti possono esultare. E difatti esultano. È impressionante che, in Italia, inconsapevoli della gaffe lessicale, alcuni si dispongano addirittura a dar vita ad un «Partito della Nazione» (il partito fascista si chiamò per l’appunto «nazionale», e «nazionali» erano detti i seguaci di Franco, mentre «socialista-nazionale» era il partito del «Führer»);
7) l’effetto della progressiva assimilazione tra i due poli culminata nella «coesione» è il non-voto di coloro che non si riconoscono nella melassa.
Ma questo non preoccupa l’ormai «coesa» élite, passata giocosamente attraverso la dedizione ad entrambe le ideologie (bipolarismo prima e coesione poi). Anzi, si gioisce ulteriormente perché si può sperare, procedendo per questa strada, di raggiungere i record delle cosiddette «grandi democrazie» dove — come negli Usa — vota meno della metà degli aventi diritto.
Anzi i più sfacciati dicono che il fenomeno del non-voto è un segno di maturità della democrazia
 La democrazia. Storia di un'ideologia....
 E’ la fine della democrazia
Ed il trionfo della libertà senza giustizia

di Dora Quaranta  
L'intervista a Luciano Canfora

Per l’uomo moderno che vuole impossessarsi delle chiavi interpretative della realtà attuale è fondamentale il libro Democrazia, storia di un’ideologia di Luciano Canfora, ed. Laterza 2004.  Giulietto Chiesa nel suo Cronache Marxziane ne raccomanda vivamente la lettura. Con sapiente acume critico Canfora guida il lettore attraverso le tappe fondamentali della storia europea, dalla rivoluzione inglese a quella francese, dalle due guerre mondiali fino alla guerra fredda ed al crollo dell’Urss per poi giungere ad elaborare, da ultimo, la sua tesi: il pensiero di vivere in una società democratica è frutto di un inganno. In modo impercettibile e con grande souplesse la democrazia ha abbandonato la scena politica ed è stata rinviata ad altre epoche. Il cittadino rimane tranquillo perché non vede esplicitamente limitato il suo diritto al voto che crede essere garanzia di democraticità. Di fatto, invece, sussiste una limitazione indiretta introdotta grazie all’abrogazione del sistema elettorale proporzionale ed all’entrata in vigore del sistema maggioritario che impedisce alle minoranze di godere di un peso politico e spinge l’elettorato verso la formazione di parlamenti a prevalenza moderata, tradizionalmente espressione dei ceti medio-alti. In sostanza viene a rideterminarsi quel fenomeno tipico dell’epoca passata in cui vigeva il suffragio elettorale censitario: <<il drastico ridimensionamento della rappresentanza dei ceti meno competitivi>>.
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<<L’arbitrarietà della tesi – spiega il prof. Canfora nel suo libro – secondo cui è l’instabilità che porta i sistemi politici verso il maggioritario è confermata dal fatto che, appunto in Italia, il collasso del sistema politico non fu affatto dovuto alla instabilità dei governi o alle frequenti crisi (esse c’erano anche quando la Democrazia Cristiana deteneva da sola la maggioranza assoluta) ma all’esplosione della “questione morale”. Caso molto interessante quello italiano: la malattia era l’intreccio tra affari e politica e invece il rimedio è stato apportato su tutt’altro piano: con la modificazione cioè del principio di rappresentanza (non più <<un uomo/un voto>>, ma voti <<utili>> e voti <<inutili>>). La bravura di chi ha approfittato del diffuso disgusto e sdegno contro “i politici” comprati (ma un po’ meno in verità verso i capitalisti “compratori”) per gabellare come rimedio a siffatti mali un meccanismo elettorale presentato come propizio appunto perché aveva l’aria di penalizzare “i politici” (in Italia il maggioritario è stato introdotto con la riforma elettorale del 1993, ndr) è stata ammirevole. Perfetta anche nella sua carica demagogica, capace di deviare lo sdegno popolare sul falso obiettivo. Ovviamente, analogamente, a quanto succede nella malavita all’indomani del “colpo grosso”, gli artefici materiali, o meglio esecutori dell’impresa sono stati presto buttati via ed il loro nome appena si ricorda>>.
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L’introduzione del maggioritario, intanto,  è stata resa possibile perché comunque i veri poteri decisionali attualmente non sono più appannaggio dei parlamenti nazionali. Le decisioni fondamentali per l’economia sono nelle mani di organismi sovranazionali tecnici a carattere europeo e sono <<confortati dal plebiscito dei mercati, ben più che da quello dei voti>>. Gli organismi elettivi sono relegati ad una funzione di contorno o ratifica nei riguardi di poteri di tipo oligarchico in principal modo nei settori dell’economia e della finanza.
La redazione di “Antimafia Duemila” ringrazia il prof. Canfora per aver gentilmente concesso questa intervista che illustra i passaggi salienti del suo pensiero.
Quali sono le prime attestazioni della parola “democrazia”? Con quale significato nasce?ˆ
Democrazia è una parola greca composta di due elementi:  e . Il secondo è un termine violento, molto icastico, indica più il dominio con la forza che non la prevalenza pacifica. Questo non va mai dimenticato. Infatti la parola nasce in ambienti che mal sopportano il predominio popolare, del demo appunto. I testi in cui troviamo per la prima volta attestata la parola “democrazia” sono testi ostili a questo predominio, fondati sulla premessa che concedere il diritto di cittadinanza ai non possidenti, ai poveri diremmo noi,  a quelli che non hanno ricchezze autonome,  che non si finanziano da soli sia già un concedere loro un dominio violento. Quindi è una parola di battaglia ostile al popolo e che falsa i termini della questione. Il fatto che il popolo esista e che politicamente si faccia sentire è già violenza secondo questi disistimatori. Ovviamente nella pratica concreta della politica greca questa premessa ha determinato degli effetti: la presenza popolare è stata contrastata con la forza e si è affermata con la forza attraverso uno scontro di fazione e di classe contemporaneamente.
Noi oggi adoperiamo questo termine in un senso completamente diverso: come sinonimo, del tutto depotenziato, del concetto di sistema parlamentare rappresentativo.
Lei sostiene che <<la democrazia proprio perché non è una forma, né un tipo di costituzione può esserci o esserci solo in parte o non esserci affatto ovvero tornare ad affermarsi nelle più svariate forme politico-costituzionali>>. Cosa intende dire?
Democrazia, se risaliamo al termine nel suo significato di partenza, è un rapporto di forze. Il popolo conta veramente, non è emarginato, esercita il suo predominio con le sue esigenze che impone all’attenzione di tutti gli altri. Questo può avvenire in una piccola città autogestita, può avvenire in un regime di tipo arcaico-monarchico. In Persia nel V-VI a.c. un grande personaggio notabile disse: <<Instauriamo la democrazia in Persia>>, ma non intendeva abrogare il monarca. Nella reggia moderna del XX secolo c’è la monarchia e c’è uno degli stati sociali più avanzati del mondo che probabilmente sarà destrutturato non appena lo faranno entrare in Europa in modo organico. Perché? Perché la forma monarchica ridotta ad uno scheletro, ad un’ostia non contrasta. In Inghilterra è diverso. L’Inghilterra ha una monarchia che è ricca di privilegi. La famiglia reale è formata da parassiti incalliti, ricchi, pieni di rendite, di terreni, di castelli, di privilegi. E’ chiaro che questo è in contrasto con la democrazia. Non mi riferisco alla forma monarchica come tale, ma al modo concreto in cui essa si esprime. La regina d’Inghilterra è chiamata dall’estrema sinistra, un po’ volgarmente, la “vacca” con disprezzo. Invece i re dei paesi nordici sono cittadini qualunque che vanno in bicicletta e non pompano ricchezze dallo Stato, hanno un loro salario.     
Nel suo libro lei si sofferma sulle “democrazie progressive” e sulle “democrazie popolari” che si affermano nel secondo dopoguerra. Qual è la differenza?
“Democrazia progressiva” è un’espressione inerente la realtà italiana del 1944 e degli anni seguenti. Parola d’ordine soprattutto del partito comunista italiano che la conia per indicare un orizzonte più ampio rispetto alla pura e semplice riproposizione del sistema parlamentare liberale prefascista. Quindi si afferma l’idea che non c’è un punto e a capo, un ritornare al punto di partenza, a come era l’Italia prima del 1926, prima cioè delle leggi eccezionali, ma un riempire la scatola esteriore del sistema liberale, pluralista, parlamentare, rappresentativo di contenuti  diversi da quelli dell’Italia liberale.
Questa è una “democrazia progressiva”, come auspicio, come idea forte, come progetto. Il suo fulcro è la Costituzione della Repubblica Italiana, il testo stilato dai costituenti fra il 2 giugno del 1946 ed il 1 gennaio del 1948. La Costituzione è sì un compromesso fra diverse forze politiche, essenzialmente socialiste, comuniste, azioniste e cattoliche, però è in primis la sintesi codificata di quelle istanze che il  vecchio liberalismo ignorava. I principi che sono scritti negli articoli iniziali costituiscono la summa di questi valori. In quella fase storica del nostro paese una forza politica come il partito comunista, le cui origini sono rivoluzionarie bolsceviche connesse alla rivoluzione d’ottobre e al suo sviluppo rapidissimo in tutta Europa, assume una dimensione diversa: eredita i valori della democrazia più avanzata borghese e vuole coniugarli con le istanze popolari. E’ una novità assoluta, un inedito nell’orizzonte politico del comunismo europeo dovuto soprattutto agli italiani.
Le “democrazie popolari” sono un’altra cosa, sono una realizzazione statale di un fatto storico.  Nell’est Europa la libertà è stata conquistata grazie alle truppe sovietiche, alla liberazione dell’Europa dal dominio nazista e questo determina contemporaneamente un ruolo direttivo di punta dei partiti comunisti in quei paesi (pur essendo essi non maggioranza numerica) ed una necessità di compromesso, il più possibile a loro personale vantaggio, con le altre forze politiche esistenti. Quindi ecco i famosi governi di coalizione con partiti contadini, socialisti, di altra estrazione. In realtà è una egemonia evidente della componente principale che è il partito comunista sotto vari nomi: partito operaio unificato in Polonia, partito socialista in Ungheria, partito comunista in Romania. Cambia il nome, ma le forze in campo sono sempre le stesse. In questi paesi una volta realizzata la conquista di un sistema sociale non esclusivamente capitalistico, ma misto (in Polonia in particolare c’è un sistema misto perché l’agricoltura è privata e la grande industria è statizzata) non si può più tornare indietro. Nell’occidente, invece, in Italia ed in  Francia soprattutto, si apre un confronto, una lotta fra partiti politici e vince chi conquista una maggioranza. Tutto quindi è sempre da capo in discussione. La democrazia cristiana si è rifiutata di attuare la Costituzione italiana per tanti anni. L’Istituto Regionale è nato nel 1970, quindi 20 anni dopo da quando era stato sancito.
L’esperimento  naturalmente ha momenti di grandezza, momenti di crisi, momenti di declino.
Il partito comunista coalizzato con altri ha determinato un secondo tipo di egemonia, quella di un ceto politico prevalente e privilegiato che è diventato bersaglio di una contestazione giusta da parte dei ceti popolari che vedevano un divario incolmabile tra la proclamazione del socialismo e la pratica di esso. Non si possono tollerare  due dimensioni all’interno di uno Stato che contesta la divisione in classi. Dopo di che la gara militare creatasi tra Usa ed Urss ha dissanguato economicamente tutto il mondo sovietico. L’ultimo a cadere è stata l’Unione sovietica a destra ma il processo è quello. Costretti a sacrificare i consumi  per migliorare le condizioni di vita in omaggio ad una gara militare mai finita alla fine ha portato al crollo. Questo si spiega con una ragione molto semplice che spesso viene dimenticata: mentre l’occidente pompa ricchezze da tutto il resto del mondo e da lì nasce la sua prosperità, il mondo socialista non aveva un terzo mondo da sfruttare, al massimo si schierava con esso per la sua libertà, per la sua indipendenza.
Perché nel secondo dopoguerra in occidente si verifica una progressiva demolizione del suffragio universale?
Suffragio universale e sistema proporzionale sono sinonimi. Nel senso che l’unico sistema che garantisca a tutti i cittadini la rappresentanza è quello proporzionale: un uomo un voto. Gli altri sistemi in cui c’è la teoria del voto utile e del voto inutile finiscono per cancellare l’uguaglianza fra tutti gli elettori o meglio costringono gli elettori a scelte non volute. Caso limite è quello della Gran Bretagna di solito indicata come modello dei sistemi democratico-parlamentari dove il 25% dell’elettorato, ogni volta che si esprime, non ha rappresentanza. E’ il famoso terzo partito tra i laburisti ed i conservatori, i quali sono perfettamente d’accordo tra loro nel non cambiare la legge politico elettorale e tenere fuori un quarto dell’elettorato.
Nei paesi ricchi dell’Europa Atlantica, di cui ormai l’Italia fa largamente parte, c’è una minoranza che sta male, che è scontenta, giustamente, del sistema economico sociale. Questa potrebbe avere una rappresentanza politica significativa soltanto con il sistema elettorale proporzionale. Qualunque altro meccanismo (doppio, maggioritario, ecc.) nasconde questa minoranza che è costretta a votare per un tipo di eletti che non sono la sua proiezione, ma sono la proiezione di altri stati maggiori, di altre forze politiche. Quindi in questo modo si cancella dalla rappresentanza quella fetta di società che potrebbe esprimere il proprio scontento anche in sede parlamentare. Il suffragio universale allo stato puro è sgradito ai nostri sistemi politici perché una minoranza, che ha anche una rappresentanza parlamentare, può inceppare il sistema ed intaccare la sua perfetta possibilità di funzionare. Ecco perché è stato cancellato il suffragio universale vero, cioè il sistema proporzionale elettorale.
Quindi il sistema maggioritario è antidemocratico.
Nasconde per l’appunto una parte dell’elettorato costringendolo o al non voto o al voto coatto.                     Si diceva che il maggioritario avrebbe cancellato l’onnipotenza dei partiti. E’ vero il contrario. Perché se gli stati maggiori impongono un rappresentante di un ex partito come capofila del centro sinistra, un altro come capofila del centro destra, l’elettore che non si riconosce in questo ex partito di fatto è costretto a scegliere o l’uno o l’altro. Se vota il proprio partito butta il voto, lo spreca. Non parlo della maggioranza, perché nel nostro paese la maggioranza è contenta del sistema sociale vigente. Almeno per ora, fra 50 anni non sappiamo. La maggioranza non voterebbe per Forza Italia se fosse veramente scontenta. C’è però una minoranza che sta veramente male. Questa non deve far sentire la sua voce.
Lei parla di sistema misto: un po’ di democrazia e tanta oligarchia.
Il termine “sistema misto” è antico nella teoria politica. Nel mondo anglosassone è esaltato moltissimo, addirittura è teorizzato come l’unico positivo. Schematizzando si può dire che una volta cancellato il suffragio universale attraverso leggi elettorali liberticide o ingannevoli il tasso di democrazia presente in un sistema politico rappresentativo è molto ridotto. I ceti forti sono presenti non solo attraverso il sistema elettorale per cui sono gratificati, ma anche in tutte le altre sedi di potere: economico, bancario, accademico, culturale, ecc. I ceti medio alti sono quelli che contano in tutte le professioni e questi costituiscono una forte oligarchia. Ci viene spiegato che occorre anche un potere di tipo monarchico (nella veste per esempio del cancelliere tedesco, ecc. ) che viene ad aggiungersi al forte potere oligarchico. Si chiama sistema misto per la presenza del potere oligarchico ed un simbolico, ma non tanto simbolico, potere monarchico. Questo è grosso modo il sistema che si sta affermando. Negli Stati Uniti è perfetto, compiuto, negli altri paesi ci stiamo arrivando.
Negli Stati Uniti allora non si può parlare di democrazia? Tra l’altro a ben vedere nemmeno nella loro Costituzione si cita mai la parola democrazia.
La Costituzione americana non ne parla affatto. Nel mondo anglosassone la parola democrazia è considerata tuttora, come del resto nell’antica Roma, una parola scomposta. Per esempio il noto periodico “Newsweek”, quando in Italia si stava votando per quello sciagurato referendum che ha abrogato il sistema proporzionale, pubblicò una nota di commento in prima pagina intitolata: too much democracy. Troppa democrazia! Il sistema elettorale proporzionale è un eccesso di democrazia. Troppa democrazia vuol dire che la democrazia va presa a piccole dosi. E’ una medicina da prendere a cucchiaini. Quindi non è un valore pienamente accettato. Per giunta negli Stati Uniti vota meno della metà del corpo elettorale e la creazione di una possibilità di essere eletti è legata al censo. I quattrini consentono di essere candidato, infiniti quattrini consentono di essere eletto. Questo è il sistema più lontano dalla democrazia che oggi sia presente sul pianeta.
La democrazia non è una cosa stabile, ma è qualcosa che si conquista giorno per giorno,  può esserci o non esserci domani, dipende dai rapporti di forza nella società. Ad ogni modo la precondizione, se si tratta di sistemi elettorali, affinché ci sia democrazia in un paese è l’adozione del sistema proporzionale.
A conclusione del suo libro lei sostiene che allo stato attuale delle cose ha avuto la meglio la libertà. Essa  sta sconfiggendo la democrazia. Libertà  e democrazia sono quindi antitetici? Che cos’è la libertà? Cosa oggi la politica intende per libertà?
Libertà è parola difficilissima usata alla leggera. Libertà è un termine che implica una relazione. Libertà da che cosa? E libertà di chi? Libertà da sola non significa niente. E’ un termine che si relaziona a qualcosa d’altro. Per esempio nel mondo greco si rivendicava la libertà contro la democrazia, cioè contro il potere del popolo; si chiedevano garanzie individuali per coloro i quali potevano essere travolti dalla lotta di classe. Se uno non voleva pagare per la realizzazione di un’opera pubblica diceva: <<Io non ho ricchezze sufficienti>>. Allora veniva subito portato in tribunale da un cittadino o un gruppo di persone che gli dicevano: <<Bene, allora scambiamoci i patrimoni giacché sei povero. Tu ci dai il tuo, noi ti diamo il nostro>>. Si faceva un processo. I ricchi volevano che la si smettesse, perché volevano difendere quella che si chiamava la loro libertà. Il senato romano difendeva la propria libertà. Gli avversari politici, i nemici esterni erano i nemici della libertà del senato romano.
Ci sono infiniti concetti che aiutano a dare un senso alla parola libertà. Nel nostro volgarissimo uso all’interno della polemica politica libertà è diventata una specie di chiave che si usa negli alberghi per entrare in tutte le stanze: <<il passpartou>>. Serve a tappare la bocca a tutti gli altri. Coloro i quali brandiscono oggi questa parola lo fanno in difesa dei propri privilegi. La mia libertà! Perché la libertà di tutti è un problema complicato che richiede dei limiti. Se ognuno scatena la propria personalità in tutte le direzioni, e quella è l’unica forma di libertà totale, si genera un conflitto con tanti altri esseri umani che hanno altrettanto diritto di esplicare la propria libertà. Ecco perché è un problema che va limitato. Brandire oggi la libertà polemicamente contro comunisti, democratici significa rivendicare dei privilegi. Quindi non c’è da farsi spaventare se un partito di estrema destra si autoproclami “Casa delle libertà” che non vogliamo ci vengano toccate e che noi chiamiamo “la nostra libertà”. E invece noi siamo per la libertà di tutti che è un problema complicatissimo, perché, come diceva Robespierre, esige la giustizia come sua regola. La libertà senza giustizia non è più un concetto positivo, è un concetto pericoloso. Ora ciò che sta vincendo è la libertà senza giustizia.
Lei dice anche che <<la democrazia è rinviata ad altre epoche e sarà pensata daccapo da altri uomini forse non più europei>>. Perché non più europei?
L’Europa di cui tanto ci si riempie la bocca ha conseguito un suo status privilegiato a livello mondiale. E’ uno dei paesi che ha una prosperità fondata sulla miseria altrui. Gli europeisti mi dicono: <<Allora sei contro l’Europa?>> Io sono internazionalista e considero l’Europa un pezzetto di un mondo un po’ più grande. Non mi faccio terrorizzare da questa accusa qui.
I senza terra sono tantissimi e stanno ai quattro angoli del pianeta. Da loro verrà daccapo riproposta la tematica dell’uguaglianza: <<Vogliamo stare come voi>>. Sarà difficilissimo che ci riescano. Non sono ottimista, perché quando Marx diceva <<Proletari unitevi>> pensava a qualcosa che andava da Bruxelles a Colonia, Parigi, Bonn, forse a Milano e a Londra. Quello era il mondo secondo Marx. Era un mondo che poteva dare vita ad un’internazionale che tentava di avere un respiro, una capacità operativa che copriva tutti questi paesi dotati di stessa cultura più o meno, stesso linguaggio, che era il linguaggio della rivoluzione francese. Se mettiamo insieme il Bangladesh, Calcutta, la Birmania, il SudAmerica quale elemento li accomuna? La diversità di linguaggi, di cultura, di religioni è enorme. Quindi sarà difficilissimo che essi riescano a trovare un linguaggio unico, ad avere un’unica aspirazione, un unico progetto, un'unica organizzazione politica. Sarà difficilissimo. Il mondo ricco ha conseguito con la fine dell’Unione Sovietica un successo enorme perché non ha più contro di sé un vero antagonista. Oggi ha sul terreno forse il terrorismo che non produce progetto politico, ma produce soltanto il comunicare il proprio disagio. Questo mi rende assai preoccupato su quello che ci attende.
Perché lei ha deciso di scrivere questo libro?
Le ragioni sono due: una sostanziale e l’altra occasionale. Da quando mi occupo, avendo l’uso della ragione, di studiare il passato l’unico problema che davvero catturi tutte le mie forze intellettuali è esattamente quello dell’uguaglianza e della disuguaglianza umana, della giustizia e quindi delle forme che l’umanità ha cercato per realizzare questo ideale enorme, grandioso. Qualunque lavoro io intraprenda ha sempre questo obiettivo. Non mi interessa la letteratura come tale, mi interessa la storia degli esseri umani, quindi anche le religioni che sono un modo un po’ mitico di affrontare lo stesso problema. In merito alla causa occasionale posso dire che il direttore di questa serie, Jacques Le Goff, mi ha dato il tormento affinché io scrivessi il penultimo volume di questa collana. L’ho fatto e alla fine non sono scontento.                                       


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Luciano Canfora insegna Filologia Classica all’Università di Bari. Numerose sono le sue pubblicazioni tra cui si ricorda: Tucidide e l’impero (2000), Storia della letteratura greca (2001), Critica della retorica democratica (2002), Prima lezione di storia greca (2004) e Giulio Cesare. Il dittatore democratico (2004). E’ direttore della rivista “Quaderni di storia” e collabora al “Corriere della Sera”.

  Una politica di insulti. Qual è il contatto tra la realtà e le parole?: il filologo e storico Luciano Canfora.

 

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